Sa pasca nuntza: come si celebra l’Epifania in Sardegna?

Sa pasca nuntza: come si celebra l’Epifania in Sardegna?

Tra sfiziosità e tradizioni centenarie: ecco come si celebra l’Epifania in Sardegna

Poche sono le usanze che si sono tramandate nel corso dei secoli per celebrare il giorno che “tutte le feste si porta via”: tra queste, la preparazione del “Dolce dei Tre Re”, parente stretto del Roscòn de Reyes spagnolo, e del su kàpidu ‘e s’ànnu, un pane dolce da “rompere” sul capo del più piccolo della famiglia.

Nata come festività religiosa, nei secoli l’Epifania ha in parte perso il suo significato originario, diventando sempre più una festa commerciale: d’altronde, il 6 gennaio è ormai inevitabilmente associato all’arrivo della Befana, la famosa vecchina che, volando di casa in casa con la sua scopa, riempie di giochi e dolcetti la calza dei bambini che si sono comportati bene. 

Detto questo, alcune tradizioni regionali sono state in grado di resistere al passare dei tempi: ne è un esempio la tradizione del Brusa la Vecia (“bruciare la vecchia”), diffusa soprattutto in Veneto e in alcune località del Trentino-Alto Adige, che -come anticipato dal nome-  prevede la messa al rogo di un enorme pupazzo composto da stracci e fascine di legna, una sorta di rito propiziatorio che suggella il passaggio dal vecchio al nuovo anno.

Lo stesso vale per il territorio sardo, nonostante le usanze popolari che celebrano questa festività siano generalmente meno sentite rispetto a quelle legate al Natale, orgogliosamente tramandate di famiglia in famiglia dalla notte dei tempi.

La befana? Una festività di recente importazione

Se per i più piccoli “La Befana vien di notte, con la scarpe tutte rotte”, come raccontato nella celebre filastrocca di Leonardo Tozzi, per altri, come l’antropologo e filologo sardo Francesco Alziator la Befana, di evidente origine non indigena, ha sommerso le tradizioni locali”.

In poche parole, sa femmina eccia o sa baccucca eccia (gli epiteti più comuni con i quali i sardi si riferiscono alla simpatica vecchina che premia i bimbi buoni tra la notte del 5 e 6 gennaio), poco ha a che fare con la tradizione locale. Nonostante questo, è in poco tempo diventata la preferita dei più piccoli -e non solo.

Una sorta di appropriazione culturale di cui possiamo leggere anche nel “Karalis: la città del sole”, tra i principali testi che trattano della cultura e delle usanze dell’isola. Meno chiaro, però, è quali fossero queste tradizioni locali.

Tra le poche certezze arrivate fino ad oggi è che, già dal Medioevo, il 6 gennaio fosse un giorno festivo: nella Carta del Logu, una raccolta di leggi sarde promulgata nell’aprile del 1392, possiamo infatti leggere Sa pasca de sa epiphania si clamat pasca nuntza, dove il termine pasca sta per “festa” e “nuntza” richiama l’annunciazione della nascita di Gesù bambino dopo la visita dei tre re Magi.

Nella stessa giornata era poi usanza annunciare in chiesa le date delle festività non soggette ad una giornata prestabilita, come la Sa Pasca Manna, cioè la Pasqua, festività molto sentita dalla popolazione locale.

Verso la fine del Quindicesimo secolo, con l’annessione del territorio sardo a quello spagnolo, la pasca nutza cominciò a perdere la tradizionale associazione con la Carta del Logu, per essere associata alla fiesta de los tres Reyes Magos, molto sentita nella Penisola iberica, tanto che nella lingua sarda troviamo ancora ancora oggi alcuni riferimenti alla sa Pasca de is tres Reis, “la festa dei tre re”.

Ecco che entrano a far parte della tradizione gastronomica sarda legata a questa festività rivisitazioni del Roscon de Reyes, la “ciambella dei re”.

Il Dolce dei Tre Re: una golosa tradizione “portafortuna”

Sebbene la preparazione sia lenta e richieda tanta cura e passione, il “dolce dei tre re” è sicuramente un pilastro della tradizione gastronomica sarda legata al giorno dell’Epifania.

Diffuso pressoché in tutta l’isola, con alcune variazioni da paese a paese, questo dolce si ispira più o meno fedelmente al roscón de Reyes iberico, una sorta di ciambella dolce a lunga lievitazione realizzata con farina, burro, uova, succo d’arancia, zucchero e latte, al cui interno vengono nascosti un fagiolo secco (in origine una moneta) e la figurina di un re. Una volta tagliato a fette e distribuito agli ospiti, comincia il divertimento: chi trova il fagiolo nascosto dovrà pagare il prezzo del dolce, mentre chi trova la statuetta sarà eletto il “re” o la “regina” della festa e dovrà essere trattato con tutti gli onori e le attenzioni del caso.

Analogamente, all’interno dell’impasto del “Dolce dei Tre Re” vengono nascosti degli oggetti, solitamente un cece, una fava ed un fagiolo, simbolo di prosperità e buon auspicio per il fortunato commensale che li troverà all’interno della propria fetta.

Su kàpidu ‘e s’ànnu, accogliere l’anno nuovo con dolcezza

Di derivazione più antica sembrerebbe invece essere la su kàpidu ‘e s’ànnu, in alcune zone noto con il nome di sas Fikkas, una focaccia di pane bianco a forma di corona su cui venivano/vengono incisi 12 piccoli soli o anellini, ognuno rappresentativo di un mese dell’anno. Secondo la tradizione, ancora oggi viva nel paese di Benetutti (in pr03ovincia di Sassari), il dolce veniva preparato durante la notte di Capodanno o di fine anno, per poi essere spezzato in testa al componente più giovane della famiglia duranto il pranzo del 6 gennaio, un rito che rappresentava l’addio al vecchio ed il benvenuto al nuovo.

Un simile rituale veniva praticato anche per la sa pertusìta o sa pertupìtta (da pertúpu, “forato”), originaria del paese di Nule (sempre nel sassarese), anch’essa una sorta di focaccia dolce dalla forte valenza propiziatoria, che solitamente veniva donata dai padroni ai pastori -non a caso spesso era decorata con disegni di pecore e altri animali.

Is animeddas, una tradizione a metà tra sacro e profano

Tipica dell’entroterra algherese era invece la pratica -ancora oggi tenuta in vita in certi paesi- di incidere la scorza di alcune arance con piccoli motivi floreali o geometrici. Frutti che venivano successivamente mostrati ai vicini e conoscenti pronunciando la frase Nem’estrèna? (“nessun dono?”). In cambio, i più fortunati potevano ricevere qualche moneta o dolcetto.

In altre parti dell’isola, soprattutto al nord, anziché sfoderare l’agrume, bambini e ragazzi andavano di porta in porta cantando il sos tres rese, il canto dei tre re. Per ripagare dello spettacolo i proprietari di casa erano soliti donare loro frutta secca, dolcetti e qualche moneta. Cattiva sorte era invece garantita a chi non apriva la porta o si comportava in maniera sgarbata con i bambini.

Entrambe le tradizioni richiamano l’Is animeddas, la festa delle anime a metà strada tra sacro e profano, che generalmente coincideva proprio con la notte di Halloween (anche se, è bene precisarlo, le due ricorrenze sembrano essersi sviluppate in maniera indipendente).

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